Esistono tante tipologie diverse di ansia.
Quella che ci viene quando dobbiamo affrontare una prova e sentiamo l’adrenalina in corpo salire, che classifichiamo come ansia da prestazione.
Quella che proviamo al risveglio, al pensiero di avere tutta la giornata davanti, che classifichiamo come ansia mattutina.
E poi c’è l’ansia d’abbandono, che va spesso a braccetto con la dipendenza affettiva.
Mi viene in mente il caso di una mia paziente, Carla. Una signora di mezza età, molto ben curata nell’aspetto, dal carattere forte, realizzata nella vita come imprenditrice.
Non con poco imbarazzo, Carla mi confessa che nonostante sia una persona dinamica, molto attiva e intraprendente nel lavoro, quando è il suo partner si allontana sperimenta stati di ansia veramente molto forti.
Nella sindrome dell’abbandono c’è anche questo aspetto da tenere in considerazione: la paura o meglio il senso di vergogna nel parlare di quel che si prova.
Come si sviluppa la sindrome dell’abbandono?
Viene da chiedersi da cosa nasca la sindrome dell’abbandono.
Perché proviamo questi forti stati di angoscia quando dobbiamo allontanarci dall’altro?
Per spiegarlo, dobbiamo risalire al copione familiare, cioè allo schema appreso in famiglia, quando eravamo bambini.
I piccoli (o grandi) abbandoni che abbiamo subito e vissuto in quella fase della nostra vita lasciano profondi segni in noi.
Spesso, la sindrome dell’abbandono può avere a che fare con l’aver avuto una madre depressa.
Quando un bambino è piccolo e ha a che fare con un genitore depresso, che non è in grado di prendersi cura di lui, sente che il genitore non è disponibile.
Anche un lutto oppure una separazione tra i propri genitori possono rappresentare delle esperienze di abbandono molto forti, che lasciano degli strascichi nella nostra psiche.
Eventi come questi mettono il bambino di fronte a una prova che per lui è troppo difficile da affrontare.
In quel momento si struttura l’ansia come soluzione all’abbandono, cioè come meccanismo per cercare di proteggerci dalla possibilità di essere lasciati soli.
È il caso di Adriana, una ragazza di 17 anni, che soffre di ansia da quando era una bambina di soli 8 anni.
L’ansia che l’affliggeva non dipendeva da qualcosa di sbagliato in lei, come le avevano lasciato intendere 8 anni di terapie.
Il suo disagio era legato a una dinamica familiare cioè al fatto che i suoi genitori litigavano in modo costante e furioso per non lasciarsi.
Adriana doveva essere la “malata”, quella che sentendosi male faceva in modo di spostare l’attenzione su di sé e non sui molti problemi di quella coppia.
Nel caso in questione fui costretto a mettere i genitori di Adriana di fronte alle loro responsabilità.
L’ansia, anche quando sembra assolutamente disfunzionale, ci sta raccontando una storia che deve essere ascoltata.
Una storia che spesso è legata al passato e a tutto quello che abbiamo vissuto.
Come capire se hai la sindrome dell’abbandono?
Come si fa a capire se soffri di ansia da abbandono?
Prendiamo il caso di Carla, la paziente di cui ti stavo parlando poco fa.
Ecco, lei tutte le volte che il partner si allontanava per un motivo o per l’altro, tutte le volte che lui la lasciava oppure spariva, senza farsi sentire, sperimentava stati d’ansia molto forti.
I sintomi tipici sono gli stessi di cui ho parlato già in diversi articoli, e tra questi ricordiamo:
Tachicardia
Oppressione al petto
Nervosismo e apprensione
Sensazione di mancanza d’aria
Insonnia
Sindrome dell’abbandono e dipendenza affettiva
Sindrome dell’abbandono e dipendenza affettiva talvolta vanno a braccetto.
Ma non sono la stessa cosa.
Nella sindrome d’abbandono ci troviamo davanti a una persona che ha paura di non esistere senza l’altro, ma vuole stare nella relazione.
Nella dipendenza affettiva, invece, la persona ha capito di non poter stare in quella relazione perché sta vivendo un rapporto tossico, velenoso.
Tuttavia non riesce a uscirne.
Può anche capitare che una persona stia iniziando a pensare di trovarsi all’interno di una relazione patologica, senza averne ancora la certezza.
Per questo, quando viene in terapia, dice di voler rimanere in quel rapporto, anche se sperimenta una forte ansia.
È lavorando con lo psicologo che si scopre se quel rapporto va bene per quella persona oppure no.
La differenza è sostanziale.
Se la persona vuole rimanere col proprio partner, allora bisogna trattare la sindrome dell’abbandono. Perché il paziente guarisca dall’ansia, deve poter capire che se l’altro si allontana, non significa che lo sta lasciando per sempre.
Se l’altro va via, tornerà.
Prendiamo il caso di Andrea, un marito troppo geloso che è venuto da me qualche tempo fa. Faceva l’allenatore di calcio e aveva quest’esigenza di controllare costantemente la propria compagna.
Anche durante le partite, mentre lavorava, continuava a mandare messaggi alla moglie e questa doveva rispondergli per forza.
Addirittura aveva montato delle telecamere in casa, adducendo la scusa che fosse per motivi di sicurezza.
Naturalmente, la situazione era diventata insostenibile per entrambi.
Sia per Andrea, che viveva nella paura, con questo bisogno di essere continuamente rassicurato da parte della sua compagna.
Sia per la moglie, che doveva dargli sempre attenzioni e cercare di tranquillizzarlo, senza riuscirci mai in modo definitivo.
Andrea effettivamente era molto innamorato della moglie.
Quindi non abbiamo lavorato sulla dipendenza affettiva, ma sull’ansia da abbandono.
In altri casi, come quello di Luisa, la situazione è diversa.
Anche lei manifestava una forte gelosia nei confronti del compagno.
Parlandone durante varie sedute nel mio studio di Roma Eur, però, ci siamo resi conto che era il suo stesso partner a indurla a comportarsi in quel modo, ad avere reazioni esagerate e molto controllanti. Quell’uomo, infatti, aveva bisogno di sentirsi al centro dell’attenzione, di manifestazioni di amore estreme.
Con Luisa siamo partiti da una presunta sindrome di abbandono per arrivare a lavorare su una situazione di dipendenza affettiva.
Come vedi, il confine tra queste due condizioni è molto sfumato. In futuro ti spiegherò meglio la differenza tra dipendenza affettiva e controdipendenza affettiva.
Come si cura l’ansia da abbandono
Bisogna comprendere che un conto è fare la storia del problema, cioè partire da quando eri piccolo per capire cosa ti è successo. Un conto è focalizzarsi sul problema stesso e quindi sui sintomi.
Che intendo dire?
Che molto spesso ci si sofferma troppo sulla storia, sperando che una volta portata a consapevolezza e razionalizzato il problema, questo si sistemi.
Non sempre è così.
Il mio approccio è di occuparci di quello che la persona fa nel qui e ora, davanti all’abbandono.
Spesso si scopre che l’ansia da abbandono è strumentale all’evitamento dell’altro.
Accade questo: lui o lei si allontana, tu ti senti male e questo serve a scatenare dei sensi di colpa nel partner, in modo tale che lui o lei non se ne vada. Quindi bisogna vedere l’ansia non come un fenomeno che riguarda quella persona e basta.
Bisognerebbe guardarla in un’ottica sistemica cioè:
Attraverso quell’ansia cosa accade a quella coppia?
Attraverso quell’ansia cosa succede a quel nucleo familiare?
L’ansia da abbandono si cura con la consapevolezza.
All’interno di un percorso psicologico è importante trovare quel piccolo comportamento che se cambiato può portare a un grande giovamento.
Tuttavia per trovare il bandolo della matassa, occorre lavorarci un po’.
Non sempre è agevole trovarlo.
Nel caso di Giulia, un’altra mia paziente, quel che aveva innescato questo meccanismo era il fatto che lei cercasse costantemente conferme dall’altro.
Queste conferme negate la facevano entrare in un circolo vizioso per cui lei continuava a chiedere al partner qualcosa che lui non era disposto a darle, rimanendo sempre delusa.
A questo punto potremmo chiederci: ma perché si continua a fare sempre la stessa cosa?
Perché siamo programmati per andare sempre verso ciò che ci è familiare.
Potremmo dire che la nostra mente è abituata a seguire sempre la stessa strada, a ripercorrere l’itinerario che le abbiamo dato, ripetendo uno schema.
L’unico modo per guarire è cercare di cambiare il comportamento nel qui e nell’ora, attraverso una serie di ristrutturazioni di significato.
In questo modo, Giulia ha smesso di chiedere conferme al partner e ha iniziato a chiedere conferme ad altre persone che erano per lei fidate.
Il risultato è che non ha avuto più bisogno di queste certezze che non arrivavano mai perché aveva strutturato un Sé coeso abbastanza da non aver più bisogno di lui.
Detto così, può sembrare semplice.
In realtà, arrivare a mettere in atto questa soluzione richiede tempo e impegno. Proprio perché, come dicevo prima, la mente va sempre verso ciò che ci è familiare.
Quindi sono state necessarie una serie di manovre suggestive e l’uso di una comunicazione efficace per portare Carla a sperimentare un nuovo approccio al suo problema di ansia d’abbandono.
In fondo il cambiamento è questo: guardare a una stessa cosa da un punto di vista diverso.
Se sei di Roma Eur, scrivimi e capiremo insieme se posso aiutarti a risolvere il tuo problema di ansia da abbandono. Possiamo incontrarci anche “a distanza”, prevedendo un percorso di terapia online.