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Quando la timidezza diventa patologica?

Spesso, i pazienti che vengono in studio per un consulto o un percorso di sostegno psicologico mi pongono una domanda: “Dottore, la mia timidezza è normale oppure patologica?

Innanzitutto, cosa significa essere timidi?

Ebbene, la timidezza è quella condizione per la quale un individuo ha difficoltà a entrare in contatto con gli altri, a intavolare una conversazione, a stare a suo agio in situazioni sociali (per esempio una cena, una festa etc.).

Questa, però, ad alcuni potrebbe sembrare la descrizione di un’altra situazione, questa sì patologica: l’ansia o fobia sociale.

Ma la timidezza e l’ansia sociale si distinguono in modo netto.

Alla fine di questo articolo, troverai un utile esercizio per comprendere quello che provi e cercare di distinguere se si tratti soltanto di timidezza o se ci sono i presupposti per parlare di fobia sociale. Scarica il pdf e compila il foglio secondo le istruzioni indicate.

Ansia sociale e timidezza: punti di contatto

L’ansia o fobia sociale rientra nel DSM5, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, ed è categorizzata tra i disturbi d’ansia. La si definisce come un’intensa paura e ansia legata a una o più situazioni sociali.

La timidezza, invece, non rientra in nessun disturbo o patologia.

Il punto di contatto tra queste due condizioni riguarda l’evitamento. Di fatto, sia il timido che l‘ansioso cercano di evitare l’esposizione e il contatto con gli altri, fa di tutto per sfuggire a situazioni in cui potrebbe essere notato. Questo comportamento, però, innesca un vero e proprio circolo vizioso che non fa altro che alimentare e sostenere il problema.

Tanto più il timido (o l’ansioso) sfugge ciò che lo fa sentire a disagio, tanto più il problema tende ad aggravarsi.

Perché accade?

Rispondere a una domanda del genere non è semplice, tanto più in uno spazio di riflessione come questo. Ma cercherò di dare una spiegazione, nei limiti del possibile.

Percezione di sé e disistima alla base della timidezza e dell’ansia sociale

Nella timidezza e nell’ansia possiamo trovare un punto di contatto importante, un tema fondamentale in comune attorno al quale ruota la questione. Si tratta della propria autopercezione e autoconsapevolezza, del modo in cui vediamo e consideriamo noi stessi e, in definitiva, della profonda sfiducia che nutriamo nei nostri stessi confronti.

Questa sfiducia può nascere per tanti motivi, non c’è una causa unica.

Per esempio, potrebbe derivare da vissuti o eventi traumatici, che hanno lasciato un segno nella nostra psiche. Potrebbe essersi sviluppata a causa di un particolare copione familiare legata al fatto che nel corso della nostra infanzia i nostri genitori non sono stati in grado di darci fiducia, di fare affidamento sulle nostre forze, instillando in noi questo senso di insicurezza.

Oppure, la sfiducia potrebbe essersi prodotta più tardi, attraverso l’interazione con il gruppo dei pari cioè i propri coetanei, alle elementari, alle medie, alle superiori o anche nel periodo dell’università.

Di fatto, ogni timidezza e ogni ansia rappresenta un caso a sé e andrebbe indagata in modo approfondito.

Ma se uno dei temi fondamentali è proprio la percezione di sé e la scarsa fiducia in sé stessi, è chiaro che se una persona affronta la propria paura, si mette in gioco e colleziona dei successi, superando tante piccole e grandi sfide, allora riuscirà a modificare quell’immagine negativa e svalutata di sé.

In altre parole, se il problema si può sintetizzare con “Non credo in me stesso”, evitando di parlare di traumi in questa sede, allora la situazione si trova nell’andare in espressione di sé, attraverso piccoli successi messi in fila, uno dopo l’altro. Al contrario, negarsi queste prove, tirarsi indietro ed evitare – come abbiamo detto prima – di affrontarle significa alimentare il circolo di timidezza o ansia sociale che si prova.


Il circolo vizioso assomiglia a una cosa del genere: tanto più il timido o l’ansioso non lotta e si mette da parte, evitando, tanto più va a rafforzare e incrementare la propria immagine negativa, confermando l’opinione che si è fatto di sé stesso, l’idea di disistima. In questo modo quella che è una “soluzione” diventa il problema, le così dette Tentate soluzioni.

Timidezza e ansia sociale: quali differenze?

Qual è allora la principale differenza tra timidezza e ansia sociale?

Per distinguere tra queste due condizioni, dobbiamo parlare di maggiore o minore intensità del disagio provato e delle sue conseguenze sulla vita dell’individuo.

Per la timidezza non patologica, basta qualche buon consiglio per risolvere.

L’ansia sociale, invece, è un vero e proprio disturbo, molto più marcato ed evidente nelle sue manifestazioni.

Inoltre, mentre il timido è concentrato su sé stesso e sulla propria interiorità che ritiene inadeguata e deficitaria, chi soffre di fobia sociale è più preoccupato dell’altro, del giudizio di chi ha di fronte. Ha paura che l’altro lo faccia sentire inadeguato e incapace.

Timidezza e introversione: sfatiamo un mito

In questo discorso sulla timidezza occorre fare un ulteriore distinguo. Spesso si fa confusione, pensando che chi manifesta timidezza sia necessariamente una persona introversa. Ma non è sempre così.

Esistono molto persone che sono timide e allo stesso tempo estroverse.

Prendiamo il caso di molti attori, anche famosi, che sul set sono a loro agio, estremamente estroversi ma poi nella vita privata sono decisamente riservati.

Il timido ha sempre una cerchia di persone, amici stretti, con le quali non dà segni della propria timidezza. Per l’ansioso sociale, invece, è più complesso riuscire a costruire una rete di relazioni tanto che questo gruppo di persone selezionate, di solito, è ridotto ai minimi termini.

Timidezza, ansia sociale e possibilità mancate: un caso reale

Il problema dell’ansia sociale potrebbe essere definito come un blocco nel vivere. Chi sperimenta questo disturbo, trova difficoltà nel lasciare che la vita faccia il suo corso perché evita di vivere appieno, precludendosi possibilità.

Vorrei farti un esempio reale.

Francesca (nome di fantasia) si presenta da me in studio per una serie di motivi, incusi degli stati depressivi. Da diverso tempo non riesce più a uscire di casa, non può più fare una serata con gli amici e le amiche perché sente di non andare bene, che è la più stupida e soprattutto teme che gli altri possano pensare di lei che è incapace, superficiale etc.

Francesca mi parla della sua storia chiaramente.

Sotto un profilo psicodinamico, emerge l’assenza totale di un padre, una madre molto presente e giudicante. Ma se dovessimo tradurre in relazioni questa sua paura degli altri che dà origine a un’ansia sociale, le sue relazioni sono scarse: poche amiche, rapporti che rimangono in superficie.

Lei ha paura di andare oltre perché questo significherebbe scoprirsi e sentirsi giudicata.

“È come se gli altri conoscendomi meglio si potessero accorgere di quanto sono superficiale” mi dice.

Questo dà origine al classico paradosso per il quale il paziente alimenta il problema.

Da un lato lei si lamenta della paura di essere giudicata superficiale, ma dall’altro ha anche paura di entrare in relazione con l’altro in modo intimo, di fatto evitando qualsiasi rapporto NON superficiale … et voilà: il paradosso è servito, la soluzione, evitare, è diventato il problema.

Come spesso mi accade, quando faccio notare il paradosso che il paziente porta con sé, c’è un momento profondo di ilarità e comprensione.

Consiglio a Francesca di fare una cosa: quando esce per una serata ludica, dovrebbe prendere nota mentalmente di tutti gli sguardi che le vengono rivolti e definire questi sguardi nel loro significato. Cosa vogliono dire quegli occhi che le si posano addosso?

Dopo un percorso abbastanza articolato ma breve, Francesca riesce a essere più sicura di sé, non precludendosi la possibilità di stare in mezzo agli altri. Il tema, infatti, resta sempre quello: l’insicurezza profonda che ci portiamo dietro e che condiziona il nostro modo di entrare in contatto con chi ci circonda, e l’evitare di affrontare il problema peggiorandolo.

Un esercizio sulla timidezza

Per questo, ti offro un piccolo spunto di riflessione e un esercizio sulla timidezza. Domandati quante possibilità hai perso perché ti sei tirato indietro. Quante ne perdi adesso, quante ne hai perdute in passato e quante rischi di lasciar andare in futuro. Pensaci e scrivile. Ma soprattutto cerca di individuare il momento in cui hai iniziato a evitare e il perché.

Questo esercizio può rivelarsi molto utile per comprendere se siamo davanti a un problema di timidezza o di ansia sociale perché, nel caso della timidezza, parleremo spesso di situazioni che poi magari si sono sbloccate. Magari inizialmente avevi paura di fare qualcosa, di incontrare una persona, di esporti e volevi tirarti indietro. Ma poi, alla fine, sei riusciti a compiere quel passo.

Per il fobico sociale questo è molto più improbabile.

Scarica l’esercizio sulla timidezza dal link qui sotto. Basta un clic

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Manuel Marco Mancini, psicologo Roma Eur

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